Dominion, l’azienda che ha fornito sistemi di eVoting durante le presidenziali 2020, chiede danni per quasi 4 miliardi di dollari a tutte le figure di spicco che hanno sostenuto ipotesi di brogli ai danni di Trump. Ma se pure dovesse uscirne vincitrice, difficilmente ne trarrà vantaggio il suo mercato. Vediamo perché
Dominion Voting Systems è l’azienda tecnologica che ha fornito apparecchiature a 28 stati durante le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2020. Un business lucrativo che impallidisce di fronte alla nuova impresa in cui l’azienda si è lanciata.
Dominion ha infatti portato in giudizio per diffamazione tutte le figure chiave che hanno sostenuto la campagna contro i brogli elettorali dell’ex-presidente Donald Trump. Pretende danni per 3,9 miliardi di dollari. Ma le cause potrebbero rivelarsi un autogol, per molti motivi.
Ma andiamo per gradi.
Le richieste di risarcimento di Dominion
L’8 gennaio, Dominion ha intentato una causa presso il tribunale distrettuale federale di Washington DC, accusando l’avvocato Sidney Powell di aver “mentito dicendo che Dominion aveva truccato le elezioni”. A Powell, Dominion richiede danni per oltre 1,3 miliardi di dollari.
Dopo meno di un mese Dominion ha scatenato un’altra causa per diffamazione contro Rudy Giuliani per la diffusione di una “grande menzogna” che “è diventata virale e ha ingannato milioni di persone facendogli credere che Dominion avesse cambiato i loro voti e manipolato le elezioni”. Anche a Giuliani chiede 1,3 miliardi di dollari.
Infine, non c’è due senza tre, il 22 febbraio, Dominion ha citato in giudizio Mike Lindell, l’amministratore delegato di MyPillow Inc. (sempre a quota fissa, $1,3 miliardi di danni). Anche Lindell avrebbe falsamente accusato le macchine per il voto di aver manipolato le elezioni.
Quest’ultima denuncia è molto dettagliata: 115 pagine con elenchi di dichiarazioni di Lindell, post sui social media, riferimenti alle sue apparizioni sui media e al film di due ore dove sarebbe “dimostrata” la frode elettorale. Il documentario, intitolato Absolute Proof, dove sostiene che un attacco informatico cinese avrebbe svolto un ruolo chiave nel manipolare le elezioni.
Se Dominion vincesse le tre cause avrebbe veramente di che festeggiare: vanterebbe un aumento del proprio “giro d’affari” del 4000 per cento senza produrre uno spillo in più.
Mentre molti media ed editori hanno fatto sparire articoli critici su Dominion, contenenti le affermazioni dei sostenitori di Trump, alcune delle quali grossolanamente diffamatorie, Giuliani, Lindell, Powell e Trump non sembrano impensieriti dall’attacco legale. Giuliani ha dichiarato: “La causa di diffamazione […] mi consentirà di indagare sulla loro storia, il modo in cui si finanziano e come fanno affari in modo completo e approfondito. L’importo richiesto sta lì, ovviamente, per spaventare le persone con problemi di cuore. È una intimidazione legale […]”. Anche Lindell ha detto all’Associated Press di aver accolto con favore la causa e di aver fiducia che il processo gli avrebbe dato ragione.
Infatti, c’è un aspetto ironico in questa causa: le corti elettorali hanno impedito a Trump di dimostrare l’ipotesi dei brogli sul campo, ora Dominion verrà probabilmente costretta alla dimostrazione dell’assenza di una cospirazione per la manipolazione del voto. Una logica inversione nel processo di prova che mette i cospirazionisti sul miglior territorio di battaglia possibile.
Più tecnologia non sempre è uguale a più trasparenza
Si prenda per esempio Chris Krebs, l’ex direttore della Cybersecurity and Infrastructure Security Agency statunitense, quando ha sostenuto che le elezioni presidenziali del 2020 sono state “le più sicure nella storia americana”. È una affermazione ragionata e ragionevole, che però difficilmente sarebbe verificabile oggettivamente in una corte. Senza dubbio le macchine per il voto elettronico prodotte da società come Dominion Voting Systems hanno reso le elezioni più facili che mai, ma dimostrarne la sicurezza è tutt’altra storia.
Il processo elettorale americano è sempre stato barcollante e agli occhi di un europeo difficilmente accettabile. A seguito della precedente vittoria elettorale di Trump e delle evidenze che influenze esterne avrebbero potuto manipolare il voto, si è fatta attenzione come non mai.
Negli ultimi anni il voto elettronico in America ha fatto un balzo indietro nelle contee in cui è stato proprio abolito, ed è stato ridimensionato laddove si è imposta la generazione delle ricevute di carta per la verifica.
Che la crociata trumpiana sui brogli elettorali sia o meno fomentata solo da manovre di piccolo cabotaggio politico a questo punto risulta di poca importanza. Tra gli americani si è diffusa una più ampia consapevolezza che “più tecnologia” non significa necessariamente “più trasparenza”.
Un mercato troppo concentrato
Il processo di selezione del mercato ha ridotto i produttori di macchine di voto a tre sole società: la Dominion Voting Systems, Election Systems & Software e Hart InterCivic. Una concentrazione che rende meno sicure le macchine di voto. Si ricordi anche il precedente svizzero dove, a lungo andare di produttori ne era rimasto solo uno, crollato poi sotto il peso di grossolani errori.
Nessuno può più trascurare che il processo elettorale americano è gestito da «società “afflitte da problemi” […] responsabili della produzione e della manutenzione di macchine per il voto e per l’amministrazione elettorale [che hanno] “a lungo risparmiato sulla sicurezza a favore della convenienza”, lasciando consapevolmente i sistemi elettorali di voto in tutto il paese “aperti ai problemi di sicurezza”», come scrivevano nel dicembre 2019, la senatrice Amy Klobuchar, la senatrice Elizabeth Warren, il senatore Ron Wyden e il rappresentante Mark Pocan in merito a Dominion Voting Systems.
Le risposte delle società produttrici sono state quantomai deboli, e in alcuni casi immediatamente contraddette dai fatti, come quando proprio la Dominion sostenne che le sue macchine non sarebbero mai state esposte su Internet e un consulente tecnico senior del National Election Defense Coalition mostrò a Nbc News come aveva trovato oltre 35 sistemi di voto online durante le elezioni presidenziali del 2020.
Le vulnerabilità dei sistemi di eVote
Negli anni molti hacker avevano mostrato coi fatti la debolezza dei sistemi di voto in fin troppe occasioni, al punto che il marchio storico nel settore, la Diebold, preferì cambiare addirittura il proprio nome in Premier Election Solutions dopo che il documentario Hacking Democracy, nominato agli Emmy nel 2006, aveva documentato ed esposto le backdoor segrete delle sue macchine elettorali.
Nel 2009 la Premier era stata acquistata da Election Systems and Software, la quale a sua volta aveva venduto i principali asset proprio a Dominion. Su quelle falle Dominion si era affrettata a dichiarare al Wall Street Journal di aver risolto ogni possibile problema.
Ma nel 2020 un altro documentario, Kill Chain: The Cyber War on America’s Elections della Hbo, aveva mostrato un noto hacker finlandese, Hursti, che alterava con semplicità i risultati elettorali da una macchina Dominion modificando solo alcune righe di codice su una scheda di memoria rimovibile.
Nel presentare le sue querele, la Dominion sembra si sia messa in uno spazio alquanto angusto. Se pure dovesse uscirne vincitrice, difficilmente ne trarrà vantaggio il suo mercato.
Infatti, appare abbastanza evidente che il punto delle cause non sarà se i sostenitori di Trump abbiano o meno diffamato l’azienda ma se i brogli siano o meno avvenuti quando l’opinione pubblica ormai già dà per scontato che avrebbero potuto avvenire. Dominion e tutti gli altri produttori si troveranno nella più scomoda delle posizioni vincenti.
È certo che il processo riporterà sotto i riflettori molte delle prove di manipolazione presentate in modo scandalistico da Trump sotto tutt’altra luce ed è possibile alle corti verrà chiesto di verificarne la solidità “logica”.
Il punto però non è se questi brogli siano effettivamente avvenuti o che, al contrario, le prove siano state fabbricate ad arte dai sostenitori di Trump, ovvero quello che probabilmente sarà il punto d’attacco degli avvocati della Dominion, ma che l’opacità introdotta dallo strato informatico dei sistemi di voto elettronico difficilmente potrà mai dare una risposta certa, definita ed univoca.
Ad un certo punto della «deduzione» (in senso giuridico) sarà necessario per i sostenitori del voto elettronico ricorrere al concetto di fiducia, e quindi a quello di rischio accettabile, e questo porrà in tutt’altra luce il confronto tra il processo elettorale elettronico e quello cartaceo.
Perché concentrare il confronto tra i sistemi in termini di rischio, specie considerando quello sistemico, è esattamente la singola cosa che i sostenitori del voto elettronico non sono mai disposti ad accettare. Preferiscono parlare di efficienza, di costi, di tempi.
Conclusioni
Se la strategia di difesa dei trumpiani sarà efficace potrà non essere sufficiente a farli vincere, ma infliggerà pesantissimi danni non alla sola Dominion, ma a tutto il settore.
Quando tutto questo avverrà, potremo plaudire al più perfetto degli autogol dell’industria del voto elettronico. Se questo costerà quattro miliardi di dollari a Giuliani e soci qualcuno poi lo troverà anche sublime. Una cosa è certa. Guarderemo questo processo con malcelato divertimento.
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