Una lezione sul voto elettronico in un incontro che si è rivelato un guazzabuglio senza capo né coda.

Stasera ho partecipato, tra il pubblico, a quest’evento sul voto elettronico, di cui si può solo parlare in termini di guazzabuglio senza capo né coda, dove si è messo tutto assieme, differenti forme di voto, differenti processi, differenti applicazioni. Se si esclude l’introduzione della moderatrice, che era stata abbastanza accorta a circoscrivere il tema, ciascuno ha effettivamente parlato di pressoché qualsiasi cosa. È stato difficile seguire il senso del dibattito in quanto nessuno dei presenti condivideva un minimo di terreno comune per la discussione (specie i relatori, va registrato: tutti maschi). Devo dire che mi è sembrata un’occasione ampiamente perduta dove, nonostante tutto, non sono mancati alcuni spunti.

Nonostante questo clima, che sinceramente ha messo a dura prova la pazienza di chiunque, ci sono comunque un paio di insegnamenti che credo di aver tratto dalla serata.

Capitolo 1 – «Facite ammuina»

Si dice che quest’ordine («Facite ammuina» ovvero, liberamente tradotto dal partenopeo: «impiegate le vostre capacità per rendere vieppiù confusa e ingarbugliata la situazione dando l’impressione di essere molto utilmente affaccendati») venisse impartito sulle navi della Real Marina del Regno delle Due Sicile a metà dell’800 (pur essendo questa una fake-news documentata, non è poi troppo lontana dalla realtà).

Il «facite ammuina» nel campo del voto elettronico è perfettamente funzionale agli interessi di chi, su questo tema, ha mire commerciali o di potere “nascoste”. Incontri come quelli ai quali ho assistito, che non hanno un centro o una delimitazione della discussione in modo che chiunque possa dire cose solidamente ancorate ad una realtà, senza che gli interlocutori possano sviare ogni discorso, servono esclusivamente a dare questa impressione di guazzabuglio, con il tentativo malcelato di far passare come errati studi su temi e argomenti dove invece c’è una solidità argomentativa basata su conoscenze, fatti, prove e addirittura certezze matematiche.  

Se si fosse parlato di voto elettronico per elezioni democratiche a livello nazionale o quantomeno di primaria importanza, tre quarti delle argomentazioni messe in campo nella serata sarebbero apparse fallaci e inadeguate in modo totalmente auto-evidente. Che senso ha, ad esempio, legare il voto locale di alcuni comuni canadesi che stretti nella morsa del ghiaccio non potrebbero fare altrimenti, con le ipotesi di brogli nelle elezioni per il presidente degli Stati Uniti, con i voti per gli ordini professionali, con l’inefficacia del processo di voto per corrispondenza degli italiani all’estero e anche i sondaggi di Roma Capitale sull’uso partecipato del bilancio? Un legame che è difficile da rinvenire, a parte l’abilità retorica che può tenerli assieme, solo per “lanciare” una data conclusione, che vedremo nell’ultimo capitolo.

Il «facite ammuina» quindi è perfettamente funzionale a chi non vuole veramente confrontarsi ma semplicemente contribuire a «far rotolare la palla», tenendo il discorso nell’assoluta indeterminazione ben sapendo di essere nelle condizioni privilegiate per rendere l’intero gioco il semplice schermo dei propri interessi.

Capitolo 2 – «Non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare»

Quando si fa una domanda e tuttavia, sulla base della propria mancata conoscenza, si ritiene che questa non sia altro che una domanda retorica a cui non si può replicare con  altro se non la risposta che si pretende di ottenere, si resta sordi alle risposte inattese basate invece su conoscenze strutturate e solide. Si finisce così in un paradosso singolare dove nonostante arrivino risposte  perfettamente complete , si continua ossessivamente a riproporre la stessa domanda e pretendere la stessa (propria) fallace risposta come se nessuna alternativa fosse mai stata data. Tutto questo non sembra giocare molto a favore della prefigurata volontà di comprensione, quanto piuttosto a quella della prevaricazione.

Così quando, in modo del tutto retorico, si è detto che non si potesse migliorare il processo del voto estero dei cittadini se non adottando il voto elettronico, si è rimasti sordi alla prova mostrata, dati alla mano, che sarebbe invece possibile, efficace e meno costoso, adottare un modello completamente differente, peraltro utilmente adottato da altri paesi di democrazia avanzata, proponendo la collocazione dei seggi esteri sulla base della geolocalizzazione degli iscritti all’anagrafe dei cittadini all’estero che possa arrivare a coprire l’84% (in 43 città) o anche fino ad oltre il 99% (in 273 città) dei cittadini, secondo i costi che si intende avere; non volerlo prendere in considerazione dà ad intendere (almeno a me che sono malizioso) che “è deciso” che il voto degli italiani all’estero sia il «cavallo di Troia» con il quale imporre agli italiani, partendo da lì, il voto elettronico. Ciò getta una luce proprio sinistra sull’intera faccenda (non è del tutto casuale l’uso della parola “sinistra” in questo frangente governativo).

Capitolo 3 – «Back to the B.A.S.I.C.»

Possono mancare le competenze tecniche strutturate, ma non dovrebbero mancare quelle culturali di base, non nell’epoca dell’informazione. Neppure il recente film, invero alquanto romanzato, su Turing ha aiutato a dare un po’ di autorevolezza alla scienza che Turing ha contribuito a fondare, neppure tra quelli che dovrebbero averne almeno un po’ di conoscenza. 

Che alcuni avvocati siano i principali promotori del voto elettronico, con le loro certezze granitiche sulla “certificazione” delle piattaforme informatiche, o del software, o della blockchain o chissachè basata sui computer, non è cosa strana.  La giurisprudenza, d’altro canto, che è fatta da persone serissime, una volta assurta al ruolo di scienza è senza dubbio una scienza un po’ cialtrona, come tutte le scienze sociali; l’informatica, fatta notoriamente da cialtroni, è però una scienza serissima che nel proprio intimo serba il rigido ragionamento delle scienze esatte, con i suoi assiomi, teoremi e dimostrazioni.

Così quando sentirete un avvocato che dice di poter certificare il corretto funzionamento del software, siete autorizzati a far spallucce e guardarlo con uno sguardo di educato compatimento per la sua ignoranza. Però questa garbato disgusto non può e non deve riguardare quelli che vi si presentano come informatici, ingegneri o al limite matematici. Nessun informatico, mai, è autorizzato, dagli dei della computabilità, a dire una simile asinità. 

Una volta esclusi gli esempi giocattolo, quelli che è come se fossero i procarioti, rispetto alla totalità della vita sulla Terra, nessun programma può essere “certificato” se non con criteri che deroghino in modo sostanziale e sistematico dal concetto di certezza matematica. Turing ci ha insegnato questo, come informatici dovremmo portarlo scritto nel DNA, con una dimostrazione tanto semplice quanto sublime. Perfettamente calzante nel caso del voto elettronico. Turing ha dimostrato che qualunque programma che dice di fare una cosa, può essere simulato da un programma che fa finta di fare quella cosa ma in realtà ne fa un’altra, e si può facilmente scoprire che questo software sia un simulatore oppure no, quindi si può certificarne il funzionamento, solo facendo un software che lo verifichi, ma quest’ultimo software potrebbe essere a sua volta un simulatore di un software che scopre i simulatori (o che certifica il voto), allora si dovrà fare un nuovo programma per scoprirlo, che potrebbe essere a sua volta un simulatore ecc. Il che dimostra, e ditelo a quelli che dicono di fare software di voto elettronico che promettono di fare quello che dovrebbero, che mai nessuno potrà mai dimostrare che un programma faccia esattamente quello che dice di fare, o non sia manipolato, o non abbia persino bug. È così semplice, sì! Possono capirlo tutti, persino un matematico o, chessò, anche un avvocato, se vuole.

Certo noi possiamo derogare a questa certezza matematica (che sia chiaro: non avremo mai, non perché lo dico io, ma perché Turing lo ha dimostrato). Che questa deroga sia o meno sufficiente dipende dal dominio dell’applicazione e, allo stato attuale in Italia, non c’è deroga sufficiente e adeguata per il voto elettronico. Esattamente questo vogliono i sostenitori del voto elettronico, introdurre questa deroga. Io non sono neppure contrario purché abbiano il coraggio di fare una adeguata valutazione e cambino di conseguenza la nostra Costituzione all’art. 48:

Art. 48. Sono elet​to​ri tut​ti i cit​ta​di​ni, uo​mi​ni e don​ne, che han​no raggiunto la maggiore età. Al 99,99% il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sen​ten​za pe​na​le ir​re​vo​ca​bi​le e nei casi di in​de​gni​tà mo​ra​le in​di​ca​ti dal​la leg​ge. O quando il software non funziona o serve a qualcuno che non funzioni.

Costituzione della Repubblica Italiana prossima futura

Tutte le prove per mostrare la “garanzia” del voto elettronico che stanno tentando di vendervi sono merce avariata che si basano su una banale quanto sostanziale affermazione: «Devi fidarti!».

Questa è la dimostrazione, che mi è stata richiesta esplicitamente, che il voto elettronico non è e non può essere sicuro, allo stato della tecnologia attuale, quando anche esistesse una struttura matematica (che non esiste!) per rappresentare i conflittuali requisiti del voto in democrazia (come tale struttura matematica esiste, e viene quindi utilmente utilizzata, ad esempio, per scambiarsi denaro online tramite la crittografia asimmetrica; non che in questo caso esistano applicazioni “certificate” con certezza matematica, però qui la deroga è accettabile in base alla possibilità di assicurare economicamente le perdite di un eventuale malfunzionamento economico, o di poter sopportare il rischio comunque residuo). Quindi riepiloghiamo: non esiste una struttura matematica, ma seppure esistesse i santi numi dell’informatica possono dimostrare che la tecnologia attuale non è in grado di certificare la correttezza di qualsiasi programma per realizzare il voto elettronico che usasse quella struttura matematica, che neppure esiste,. QED.

Capitolo 4 – «Non lo fò per piacer mio, ma per piacere a Rousseau»

Ma, come dicevo all’inizio, ho tratto una lezione, oltre quella sull’infinita varietà di modelli balordi con cui si balocca la ragione di persone che pure si considerano intelligenti ma che poi non hanno la volontà di separare i fatti dai sofismi, pur di poter scalare qualche gradino nella piramide del potere.

Il punto centrale di questa insidiosa argomentazione può essere riassunto così:

Conosciamo il limite del sistema di voto elettronico, non sosteniamo più (come facevamo solo pochi mesi fa) che il voto sia sicuro, o meno costoso, o utile a incentivare la partecipazione, siamo perfettamente consapevoli che, nel complesso, tutte queste argomentazioni possono essere ciascuna, una alla volta, pazientemente e puntigliosamente confutate, e che per ogni prova che noi possiamo portare, esiste una controprova più solida che sostiene il contrario. Ciò nonostante ci limitiamo a registrare che esistono delle esperienze di voto elettronico in giro per il mondo  (e non scendiamo nei dettagli per comprendere meglio) ma se queste esperienze esistono allora vuol dire che questa forma di votazione ha i suoi estimatori che per un motivo o per l’altro hanno deciso di adottarlo, allora non c’è veramente bisogno di scendere nei dettagli di una decisione razionale e argomentata. Il problema non è quindi se il voto elettronico sia meno efficace o abbia meno rischi o aggiunga qualcosa al processo di votazione, quindi al di là di qualsiasi ragione oggettiva che possa consigliarci a farlo o, di converso, a non farlo, il problema è se alla fine riusciamo a trovare all’interno della nostra comunità di riferimento (nella nostra maggioranza) un consenso sufficiente per adottarlo. Non ci importa una decisione necessaria, ci basta una decisione sufficiente, basata sul fatto che noi siamo convinti di voler provare (con buona pace delle minoranze che non fanno che infastidire chi governa).

È un’argomentazione insidiosa, ancorché debole, che rappresenta molto bene, io credo, la variazione, lo scivolamento della realtà politica di chi la propone, da forza politica (in un senso quasi platonico del termine) a forza di regime, a forza del regime partitocratico italiano e quindi la saldatura con i tradizionali rappresentanti di questo regime, abbandonato il campo del populismo e completare così la transizione partitocratica.

Quando il politico deve prospettare una proposta alla Polis, argomenta con gli strumenti propri della scienza politica: con la certezza, con l’esempio e l’argomento, mostrando una possibilità suffragata da fatti, da ragioni, da proposte, addirittura da visioni di lungo periodo.
Ma giunto al potere, liquefatti i fatti, le ragioni e le proposte che, scontrandosi con la realtà, si sono rivelate fasulle, ingannevoli e artefatte (e la via delle illusioni dei sostenitori del voto elettronico in Italia è lastricata da questi passi falsi, come spesso abbiamo avuto modo di riprendere), quello che rimane sono solo le belle “visioni” di una ideologia di potere che dice: «Lo faremo a prescindere da tutti, perché abbiamo la maggioranza, perché siamo al potere e possiamo permettercelo nell’ambito di un do-ut-des da cui noi dobbiamo pur far vedere di aver guadagnato qualcosa».

Non c’è altro! Registro questo dato in un quadro (per me) fin troppo chiaro del regime partitocratico italiano che è pronto ad ottenere questo risultato non appena sarà utile al suo equilibrio. A dispetto dell’utilità dei cittadini.

Ma godo però di una certa soddisfazione. 

Innanzitutto perché nel generale «facite ammuina» sul tema, ormai il Comitato per i Requisiti del Voto in Democrazia è riuscito, e questo è innegabile, a porre la sentenza della Corte Costituzionale tedesca, con i suoi invalicabili requisiti rispetto al diritto alla conoscenza dei cittadini, al centro di qualsiasi discorso sul voto elettronico in Italia (e lo si è visto stasera).

La pervicace assenza dei costituzionalisti da questi dibattiti (sostituiti da avvocati con competenze costituzionali meno che risibili), unita persino alla certezza che alcuni sostenitori del voto elettronico hanno ormai sviluppato che è impossibile, in relazione ai necessari passaggi costituzionali, il voto elettronico in Italia (quantomeno per le elezioni politiche), se non fosse solo una celia strategica, potrebbe già da subito rassicurare circa la totale inutilità, ormai, di qualsivoglia maneggio tecnocratico che si possa oggi proporre a livello ministeriale o governativo. A differenza di quanto era già solo un paio di anni fa il tema è ormai eminentemente costituzionale e non solo un mero passaggio tecnico (come pure fu in Germania, prima della sentenza). Seppure mai questo o altri governi possano pensare di percorrere strade regolamentari per tentare l’imposizione del voto elettronico, è chiaro che ormai la sensibilità per procurare un incidente costituzionale è ampiamente diffusa tra le forze politiche e nell’intera società. Comunque il Comitato non abbasserà la guardia.

Ma c’è anche un altro aspetto, minore, di soddisfazione e riguarda il campo più propriamente politico per cui i sostenitori del voto elettronico spinti dalle proprie stesse illusioni e fallacie, dall’uso spregiudicato di falsità o mezze verità — anche messi alle corde da una situazione internazionale che si sta sempre più semplificando, con i paesi di democrazia avanzata ampiamente esposti nell’eliminazione evidente del rischio elettronico nel voto — oggi non possono fare altro che mostrare la propria faccia più vera di regime partitocratico, pronto a «gestire il potere» per i propri interessi (chiaramente “economici”, come è stato ripetuto più volte nella serata) a discapito del cittadino, della democrazia, delle minoranze. È rivelatore il passaggio «facciamolo perché siamo d’accordo», che è perfettamente rappresentativo del tipo di tirannia democratica razionalizzata da Rousseau. Non c’è altro da aggiungere.

Noi sostenitori della scorrettezza costituzionale del voto elettronico in qualsiasi situazione relativa al voto in democrazia siamo, certo, ad un passo da una sconfitta “di regime”, ma anche dalla più ampia consapevolezza popolare che mai ci sia stata su questo tema. 

Emmanuele Somma
Segretario
Comitato per i requisiti del voto in democrazia

Post Scriptum

Appendice – Controprova sul voto cartaceo.

Metto in appendice la controprova che mi è stata pateticamente chiesta che invece il voto tradizionale sia «sicuro», a differenza del voto elettronico. Sulla insicurezza necessaria del voto elettronico, in quanto realizzato con componenti software, è stato detto in precedenza.

Ma come si dimostra, la sicurezza del voto tradizionale?  Ecco: semplicemente non c’è bisogno di farlo. Tutto qui. 

Nel voto tradizionale, in modo diametralmente opposto rispetto al voto elettronico, si parte dall’ipotesi che il voto NON sia sicuro per definizione, ovvero che sia attaccabile in ogni anello della catena del processo, e ogni anello della catena del processo è presidiato attivamente da attori che rappresentano interessi in competizione tra loro e che sottostanno a catene di comando differenti, ai quali viene chiesto, da un lato, di comportarsi responsabilmente, ma dall’altro di applicare una ragionevole sfiducia costruttiva nei confronti di tutti gli altri attori del processo. 

In nessun passaggio del processo elettorale cartaceo c’è l’espressione di un «Devi fidarti!», ma sempre piuttosto di «Guarda coi tuoi occhi!». E se gli occhi non saranno i tuoi personali, sono quelli dei tuoi rappresentanti (rappresentanti di lista), delle forze politiche nazionali (quindi rappresentanti dei cittadini), di funzionari pubblici (che hanno fatto un giuramento di fedeltà, non al governo o alla propria linea di comando, ma alla Repubblica:  «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’Amministrazione e dei cittadini per il pubblico bene»).  

Il processo elettorale è il risultato di un conflitto d’interessi mantenuto all’interno di un binario di correttezza formale dalla responsabilità (che non è solo formale o nominale, ma anche giuridica) dei partecipanti (dal cittadino che esercita il voto ordinatamente, o la funzione di controllo in modo tranquillo, alle forze dell’ordine che presidiano i seggi, ai rappresentanti delle liste, ai funzionari ministeriali, ecc. ecc.). 

Di fronte all’evidenza che i brogli locali nei seggi (previsti e gestiti dal processo, come dimostrano i frequenti riconteggi e le condanne per brogli) per propria stessa natura non “scalano” e quindi non potranno avere mai valore sistemico. la sbrigativa, e pure un po’ ignobile e complottista, contestazione dei sostenitori della superiorità del voto elettronico è che gravi manomissioni sarebbero compiute nei luoghi di aggregazione dei risultati, dimenticando che questi luoghi sono quegli stessi che gestiscono il corretto andamento del processo istituzionale e democratico in ogni giorno della nostra Repubblica (questure, corti d’appello, ministeri).

Inoltre spesso si confonde (volutamente o per mera ignoranza del processo) che la comunicazione dei dati nella giornata elettorale non ha alcuna relazione con l’effettiva procedura di proclamazione degli eletti, che segue la strada più certa, più lenta, più controllata, che giunge fino alle commissioni elettorali circoscrizionali, nelle corti d’appello, presidiate dal personale giudiziario, in potenziale contraddizione con quello ministeriale. Una ignoranza del processo che mostra solo l’incompetenza nella materia che si pretenderebbe di volerla innovare.

Se si ventilano questi complotti (che coinvolgono cittadini, funzionari pubblici ad ogni livello, forze dell’ordine, uffici giudiziari, cancellerie, e semmai pure partiti e stampa che da queste fonti, così distribuite, trae le informazioni, ecc. ecc.), a parte ad essere un argomento politico francamente indegno di ogni dibattito civile, segnale dell’evidente anti-socialità di chi lo pone, non si capisce come la situazione potrebbe mai migliorare quando a gestire l’intera procedura potrebbero essere poche persone, al limite solo pochi programmatori chiamati a “nascondere” nel loro software i “malfunzionamenti” adatti a manipolare il voto. 

Delle due l’una: o questi complotti esistono oggi (mai scoperti o denunciati da nessuno) e quindi non si vede perché non dovrebbero esistere poi, quando sarà più facile metterli in atto, o si può dire che non esistono oggi, visto che nessuno adduce prove di questi fantomatici complotti, e però nessuno può sapere se domani, essendo anche molto più facili da mettere in atto, non vengano effettivamente posti in essere.  In ambedue i casi la situazione attuale, con il voto cartaceo, è di gran lunga più favorevole e meno rischiosa di quella ipotizzata con il voto elettronico.

È necessario dimostrare che il voto elettronico non fallisca (e si dà il caso che è dimostrato matematicamente il contrario) o comunque valutare l’impronta del rischio di questo fallimento (e si dà il caso che esempi eclatanti danno chiaramente l’idea fino a quali danni la gestione del voto elettronico può giungere), perché in questo caso il processo è substrato che contiene l’essenza del voto stesso e quindi non può essere separato da esso (e sì, adottare la blockchain in questo caso è solo un palliativo senza alcun valore). 

Nel caso del voto cartaceo si può ben limitarsi a garantire una ragionevole funzionalità del solo processo, perché l’oggetto del conteggio è da esso separato in modo concreto e oggettivo e può viaggiare in modo completamente «sicuro» fintanto che i presidi di sicurezza sono accertati e verificati, e ciò avviene in modo esteso proprio grazie alla molteplicità delle persone coinvolte nella verifica di questi presidi.

«Given enough eyeballs, all bugs are swallow», si dice nel campo dell’informatica. Sfido a trovare più «enough eyeballs» in qualsiasi processo informatico per la realizzazione di un voto elettronico di quanti non ne siano in un voto cartaceo.

QED.

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